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Love story di Stefanie Golisch

selezione a cura di Flavio Almerighi

Lunedì sera.
Cinque persone in un vagone della metropolitana.
Uno comincia a parlare,
gli altri giocano con il cellulare.
Siediti accanto a me.
Mi chiede il mio nome,
gli dico un nome e aggiungo: stanca.
Anche lui dice un nome.
Sei fermate ancora.
E’ andato a teatro, ma si è annoiato a morte.
Mi chiede se faccio la contabile e
si scusa subito.
Dice che nessuno è contento della propria vita.
Io si invece.
Lui: non ci credo.
Chiudo gli occhi, la vie, la vie, quelle connerie la guerre…
Riapro gli occhi.
Chiede se qualche volta possiamo bere un caffè insieme.
Dico che non ho mai tempo perché devo volare.
Dice che mi farà un paio di ali.
Rispondo, grazie.
Mi alzo.
Capolinea.

Stefanie Golisch, Dr. ph, nata nel 1961. Germanista, scrittrice, traduttrice. Vive e lavora dal 1988 in Italia. Dal 1995-2003 incarico all’università di Bergamo per la letteratura tedesca contemporanea. 2002 Premio letterario Würth. Dal 2007 redattrice del blog letterariowww.lapoesiaelospirito.wordpress.com. Dal 2009 membro del „Pen Zentrum deutschsprachiger Autoren im Ausland“ e di „Writers in Prison“. Numerose pubblicazioni letterarie e di critica letteraria in tedesco, italiano e inglese. Conferenze, seminari e incarichi universitari.

Cocotte di Guido Gozzano

(nel centenario della morte, il 9 agosto 1916)

I.
Ho rivisto il giardino, il giardinetto
contiguo, le palme del viale,
la cancellata rozza dalla quale
mi protese la mano ed il confetto...

II.
"Piccolino, che fai solo soletto?"
"Sto giocando al Diluvio Universale"
Accennai gli stromenti, le bizzarre
cose che modellavo nella sabbia,
ed ella si chinò come chi abbia
fretta d'un bacio e fretta di ritrarre
la bocca, e mi baciò tra le sbarre
come si bacia un uccellino in gabbia.
Sempre ch'io viva rivedrò l'incanto
di quel volto tra le sbarre quadre!
La nuca mi serrò con le mani ladre;
ed io stupivo di vedermi accanto
al viso, quella bocca tanto, tanto
diversa dalla bocca di mia Madre!
"Piccolino, ti piaccio che mi guardi?
Sei qui pei bagni? Ed affittate là?"
Subito mi lasciò, con negli sguardi
un vano sogno (ricordai più tardi)
un vano sogno di maternità...
"Una cocotte..."
"Che vuol dire mammina?"
"Vuol dire che è una cattiva signorina:
non bisogna parlare alla vicina!"
Co-co-tte... La strana voce parigina
dava alla mia fantasia bambina
un senso buffo d'ovo e di gallina...
Pensavo deità favoleggiate:
i naviganti e l'Isole Felici...
Co-co-tte... le fate intese a malefici
con cibi e bevande affatturate...
Fate saranno, chi sa quali fate,
e in chi sa quali tenebrosi offici!

III.
Un giorno - giorni dopo - mi chiamò
tra le sbarre fiorite di verbene:
"O piccolino, che non mi vuoi più bene?"
"È vero che sei una cocotte? "
Perdutamente rise... E mi baciò
con le pupille di tristezza piene.

IV.
Tra le gioie defunte e i disinganni
dopo vent'anni, oggi si ravviva
il tuo sorriso... Dove sei, cattiva
signorina? Sei viva? Come inganni
(meglio per te non essere più viva!)
la discesa terribile degli anni?
Oimè! Da che non giova il tuo belletto
e il cosmetico già fa mala prova
l'ultimo amante disertò l'alcova...
Uno, sol uno: il piccolo folletto
che donasti d'un bacio e d'un confetto,
dopo vent'anni, oggi, ti ritrova
in sogno, e t'ama, in sogno, e dice: T'amo!
Da quel mattino dell'infanzia pura
forse ho amato te sola, o creatura!
Forse ho amato te sola! E ti richiamo!
Se leggi questi versi di richiamo
ritorna a chi t'aspetta, o creatura!
Vieni, Che importa se non sei più quella
che mi baciò quattrenne? Oggi t'agogno,
o vestita di tempo! Oggi ho bisogno
del tuo passato! Ti rifarò bella
coma Carlotta, come Graziella,
come tutte le donne del mio sogno!
Il mio sogno è nutrito d'abbandono,
di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi. Non amo che le cose
che potevano essere e non sono state...
Vedo la casa; ecco le rose
del bel giardino di vent'anni or sono!
Oltre le sbarre il tuo giardino intatto
fra gli eucalipti liguri si spazia...
Vieni! T'accoglierà l'anima sazia.
Fa' che io riveda il tuo volto disfatto;
ti bacierò: rifiorirà nell'atto,
sulla tua bocca l'ultima tua grazia.
Vieni! Sarà come se a me, per mano,
tu riportassi me stesso d'allora,
il bimbo parlerà con la Signora.
Risorgeremo dal tempo lontano.
Vieni! Sarà come se a te, per mano,
io riportassi te, giovine ancora.

Guido Gozzano

 

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Selezione di poesia a cura di Flavio Almerighi

Poesie di Cristina Annino [1]

Quando ama non è riamato

Mai il telefono gli dice grazie; né telefono postino né
amici. Niente multipli. Nemmeno un orecchio solo, così su due
piedi, per dirci dentro grazie; piegato da far pena il labbro
leporino. Un peccato, dico io, una vera tristezza
moderna, dar via la saliva. Va bene gli intestini delle
pesanti vie di Velàsquez, caduto dalla padella negli altri
giumentini d'ombre cinesi. Né più bravi né buoni. A nulla.
Abbi cura di lui, fratello. Quando ama non è
riamato. Lui non esce di casa, evapora. Lui ha la mania
araba delle tende; la sola bocca arancio di Cibeles
fontana lo divora buio. Finisce. Io lo so: va per acqua
lungo la vita senza stop. Va per coperte sudice senza
un lenzuolo d'ombre cinesi. Lui s'accontenta di meno, nessuna
polpa dell'accademia di pittura. Come croste o medaglie.
Fin lì fin lì Madrid lo frega. Quella borghese del telefono.
Siede
più del dovuto il pensiero color turco, senza posta né
amici. Niente multipli. Avanti indietro nella stanza finché
cancella l'ossatura grigia di gambero. Nemmeno un orecchio
solo, o un piede trentasette di numero. Darebbe via la
saliva per quello. Per dire almeno grazie.
 

L’artista
 

Bene di profilo ma davanti
niente, tetramente scosso non
volendo bere perché isterico, per non
cadere a terra. Lui, Impala
unico, nel rosso che tramontava.
Aveva
trasformato violenza in arte, ma è
sciocco tutto; mette sale, non basta.
In un
lungo minuto sparge quel poco
di muscoli e ossa, se li contava. Le
vertebre soprattutto brillando
come lampade nella cenere.
Chiedeva
aiuto, ché il mondo ci dà e poi ci
toglie e non lascia niente. Un
accendino, il cuore del Prado;
l’avrebbe spezzato in due, a potere.
S’alzava
la brace a ogni passo.

 

 

 

[1] CRISTINA ANNINO, vive a Milano, la sua prima pubblicazione è del 1969; seguono altri 14 volumi. Sta uscendo con l’editore Donzelli (Roma 2015) il suo ultimo libro di poesie dal titolo Anatomie in fuga. Si occupa anche di pittura.

 

 

di Flavio Almerighi

LE COSE FUNZIONANO [1]

le trasmissioni proseguiranno
fino alle sei del mattino
con il Notturno dall'Italia.
Il vento non si abbasserà,
stanotte foglioline appuntite
secche scavalcheranno i nidi,
le donne dormiranno nude
ma non troppo,
lasciate senza amore,
passere su rami che non si sa
dove vadano a dormire
dopo l’arroganza del giorno.
Il buio profumerà di viola
galleggiando fino al soffitto
dove i sogni scoprono
la propria vertigine
nessuna protezione
ai monchi a mani giunte
ai ragazzi liberi di nessun futuro
agli inventori scarichi
del genio italico.
Qualche portiere di notte
forse, uscirà vivo

signore e signori
vi auguriamo una buona notte

[1] Terza classificata al laboratorio di poesia civile “I testimoni” tenuto da Valerio Grutt, direttore del Centro di poesia contemporanea dell’università di Bologna e da poeti Giuseppe Nibali e Patrizia Dughero

 

 

Tre poesie di Philip Larkin [1] Selezione a cura di Flavio Almerighi

 GLI ALBERI

Accenno di un discorso che ancora si ripete,
spuntano sugli alberi le foglie;
i germogli freschi s’allentano e distendono
in una verdezza simile al dolore.

Forse quelli nascono di nuovo
mentre noi invecchiamo? No, muoiono anche loro.
Il trucco annuale di apparire nuovi
è scritto in fondo a venati anelli.

Eppure si dibattono, inquieti castelli
ancora grandi e folti a ogni maggio.
Morto è l’anno passato, sembrano dire,
e s’incomincia di nuovo e daccapo ancora.

FINESTRE ALTE

Quando vedo una coppia di ragazzi
e penso che lui se la scopa e che lei
prende la pillola o si mette il diaframma,
so che questo è il paradiso

che ogni vecchio ha sognato per tutta la vita –
legami e gesti messi da parte
come una mietitrebbia arrugginita,
e ogni giovane che va giù per lo scivolo

di una felicità senza fine. Chissà
se qualcuno osservandomi, quarant’anni fa,
ha pensato: Quella sarà la vita;
non più Dio, non più sudore e paura la notte

per l’inferno e per tutto il resto, non più
il dovere di nascondere quello che pensi del prete.
Lui e quelli come lui tutti giù per lo scivolo
come maledetti uccelli liberi. E all’improvviso

non una parola viene, ma il pensiero di finestre alte:
il vetro che assorbe il sole,
e, al di là, l’aria azzurra e profonda, che non mostra
nulla, che non è da nessuna parte, che non ha fine.

SIA QUESTO IL VERSO

Mamma e papà ti fottono.
Magari non lo fanno apposta, ma lo fanno.
Ti riempiono di tutte le colpe che hanno
e ne aggiungono qualcuna in più, giusto per te.

Ma sono stati fottuti a loro volta
da imbecilli con cappello e cappotto all’antica,
che per metà del tempo facevano moine
e per l’altra metà si prendevano alla gola.

L’uomo passa all’uomo la pena.
Che si fa sempre più profonda, come un’insenatura.
Esci, dunque, prima che puoi
e non avere figli tuoi.

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